Il dominio del frastuono: 30 dischi forgiati nel rumore

2023-03-08 14:26:39 By : Mr. Sage Hu

‘Ho letto che vi piace scrivere di perversioni sessuali, declino, morte, tutte cose che riguardano il lato oscuro del mondo.’

‘Capisco perché lo dici, ma non c’è niente di vero. È semplicemente più divertente scrivere di queste cose che di come qualcuno ha ricostruito qualche vecchio palazzo di merda.’

Quello che accadeva nelle ultime tre decadi del ‘900 non ha niente a che vedere col futuro. Non nelle intenzioni di coloro che stavano scavando un buco nel terreno per star fuori dal raggio delle telecamere e di quel mondo di plastica che i più volevano costruire attorno alla parola “rock”. Un mondo che mi è sempre piaciuto, più del dovuto forse, ma che era destinato ad essere bistrattato e reso ancor meno invitante dal pubblico. Inutile dire che “prima era meglio, oggi no”, perché i nostri tempi sono figli di quei tempi, con un’unica differenza: il rumore.

Il rumore non è qualcosa che si può addomesticare con facilità, né tantomeno “normalizzare”, le onde sonore non mentono, e non c’è limiter che tenga quando il rumore decide di essere lasciato a briglia sciolta. Quando in un’intervista chiesi ai Buñuel quanto fosse importante produrlo Xabier Iriondo (uno che di rumore se ne intende) mi diede una risposta perfetta:

Anche se nel mondo della musica si perderà la voglia di fare rumore (ma ne siamo davvero convinti di questa affermazione?) … il rumore esisterà sempre, nella vita di chiunque (sin da quando si nasce), dunque dar voce “artisticamente” al rumore significa rappresentare la vita, la bellezza. Perché senza il rumore non ci sarebbe quella spaccatura “emotiva” che rende pienamente godibile il dolce “ron ron” della melodia e dell’armonia musicale.

Questione di equilibrio, necessità che esistano entrambe le facce di un’unica medaglia, che però unica non è, perché il rumore è stato da sempre compagno di tante altre realtà. Prima ancora che i Velvet Underground fossero visti come progenitori di un “genere”, il rumore non aveva una casa. Si spostava dove gli pareva. Stravinskij si rese conto di quanto la melodia avesse bisogno di una scossa, rese il suo opposto un’esplosione percussiva che non avrebbe soffocato la delicatezza degli archi ma ne avrebbe accentuato la potenza, con gli ottoni a tuonare. Più volume. Ancora di più. Immagino il pubblico dell’epoca, frastornato, uscire dalla sala concerti e dire “questo è solo rumore”. E se ne innamorò. Šostakovič divenne un nemico del regime, perché la sua musica non era percepita come tale, faceva tappare le orecchie, era intesa come rumore, qualcosa che non poteva che distrarre dalla Rivoluzione, mentre fuori le fabbriche distruggevano il silenzio. John Cage se ne fece beffe e divenne celebre per averlo zittito, il rumore, ma era solo illusione, perché nel suo silenzio era il rumore a dominare il pentagramma. Queste due realtà si sarebbero potute fondere assieme. Dissonanze melodiose di un mondo in trasformazione. Un mondo sempre più rumoroso, macchine che nascono e prendono possesso delle strade e delle case. Esseri umani che producono rumore per produrre qualcosa che servirà ad altri esseri umani.

Nel mondo non c’era più posto per il suono puro, così le avanguardie hanno cominciato ad espandersi, infiltrandosi nelle orecchie degli ascoltatori, per infastidirli (inutile nasconderlo, è uno dei motivi per cui si percorrono strade diverse da quella che altri vorrebbero chiamare “maestra”) e negli anni ’60 la vittima sacrificale fu il jazz, ormai assestatosi in un’ordinarietà da sala da tè. Ornette Coleman spezzò la maledizione con un doppio incantesimo, due quartetti a briglia sciolta che suonavano alle estremità di uno studio di registrazione, squarciando lo standard, tramutando la melodia e la tranquillità in un mostro, portando il mondo che fuori gridava sull’asfalto nelle strade dentro un disco laccato. Pochi anni più tardi Peter Brötzmann alzò l’asticella, decise che se il rumore doveva essere tale avrebbe dovuto avere l’aspetto di una mitragliatrice impazzita, pronta a falciare tutto ciò che le si parava dinnanzi, descrivendo l’orrore che battezzò il Secolo Breve, un cataclisma distruttivo e catartico. Kaoru Abe, invece, prendeva con sé il suo fido sassofono, usciva all’ora di punta e andava a piazzarsi sulla corsia d’emergenza dell’autostrada Tokyo-Yokohama, perché voleva che la sua musica sovrastasse il rumore prodotto dalle macchine, di quella realtà ormai disumanizzata. Per farlo distrusse la melodia. Diventò lui stesso rumore.

Quando poi il tempo che divideva ‘900 e Nuovo Millennio ha cominciato ad assottigliarsi, anche la distanza tra rumore e melodia è diminuita drasticamente. Avanguardia è diventata necessità, più la musica popolare diventava pop, vendibile, fruibile, più tutta una schiera di musicisti decise di portare la musica alta in mezzo alla gente e per farlo decise di utilizzare l’arma del rumore come testa d’ariete per buttare giù i muri imposti dal grande pubblico e da chi gli forniva cosa ascoltare e perché farlo. Imporre il disastro per demolire l’imposizione.

Questo è il viaggio che intraprenderemo qui (in alcuni casi spingendoci ben oltre la fine dello scorso Millennio), e ad essere tirati in ballo saranno gli album che hanno dato risalto a ciò che è stato e sempre sarà l’idea di noise, spaziando in ogni suo alveo, jazz, harsch, rock, punk, cut-up, hip hop, industrial, no wave, alcuni saranno dischi storici, altri più recenti che la storia purtroppo non potranno farla. Non fissatevi quindi sul genere in sé (anche perché tanti di questi sono usciti ben prima che esso fosse definito come genere al di là del frastuono in sé), siate senza confini, perché quando si parla di rumore essi non sono necessari.

Parto da qui, e come non potrei? Punto primo: “Liar” compie trent’anni a ottobre. Punto secondo: non c’è nessun disco noise rock, indie rock, math ecc. ecc. che suoni come suona “Liar”, nemmeno “Goat” o “Head” degli stessi Jesus Lizard. Paranoico, pressante, malato, marcio fino al midollo. Duane Denison mostra la strada a tutti i chitarristi che da qui in avanti vorranno rendere le loro chitarre scimitarre affilate, McNeily e Sims con le ritmiche di Gladiator ci fanno il cemento. Yow è Yow. Su un palco nudo e col cazzo nascosto tra le cosce, in studio (sempre nudo immagino), per lui non fa differenza alcuna, sembra pazzo, divora nervoso e vomita malessere. C’è rumore in ogni dove, sembra pulito e invece non lo è. La copertina, poi, è forse tra le più belle mai create. “Allegory Of Death”, questo il titolo che l’artista Malcolm Bucknall dà al suo quadro. Quelle teste di gatto, l’arte pre-rinascimentale che grida “STOMALE”, la morte che attende fuori dalla finestra e dentro il delirio puro. Ecco qui. Ecco qui. Perché quando escono le liste dei dischi rock più influenti non lo troviamo? Perché la gente non capisce un cazzo.

Il 1968 è stato un anno formativo per tutto, la rivoluzione sembrava reale e il mondo, per l’ennesima e non ultima volta, pareva stesse andando in mille pezzi. Il Vietnam infuriava e la consapevolezza di una tale azione oscena non lasciava indifferenti. La reazione dei musicisti fu multiforme e una di queste sfaccettature si è incarnata nel secondo album di Peter Brötzmann. Un ottetto formato da fiati, due bassi, due batterie (alla faccia delle formazioni industrial a venire) e un pianoforte in grado di produrre una quantità di rumore diabolico senza pari. In apertura il sax che imita un mitragliatore (Don Cherry d’altronde chiamava “machine gun” il musicista tedesco) è solo il prodromo della distruzione. Il jazz crolla sotto i colpi devastanti dell’ensemble, la melodia è un ricordo vago, di armonia non c’è nemmeno la benché minima traccia. Il suono sbatte e deraglia. È la fine di un’era e l’inizio di un’altra molto più feroce.

Keiji Haino sì che si è forgiato nel rumore. I suoi album solisti sono lì a dimostrarlo, ma è forse con i suoi Fushitsusha che ha raggiunto il picco del malessere negli anni ’90, creando un mondo organizzato nel suo essere disarmonico. “Allegorical Misunderstanding” è un album fatto di improv, droni incessanti di chitarra e basso, storture ritmiche che disgregano e si fanno collante. Silenzi, rumori molesti per un rituale pagano elettrico e trasfigurato. Produce John Zorn con la sua Avant e mixa Martin Bisi. Nomi che torneranno. Vedrete.

Che New York City sia la patria del rumore è cosa nota. Solo in una città mostruosa come questa sarebbero potute nascere realtà tanto fottute, a partire dai Suicide, che di un certo tipo di disastro sono padrini indiscussi. I Sightings hanno preso tutta la cacofonia che risuona tra cemento, vetro e metallo e l’hanno fusa in un gigantesco mostro disarticolato all’interno del quale gli strumenti si fondono ad una temperatura insensata. Le grida sovrastano gli strumenti e non c’è verso di riconoscervi la benché minima sorta di umanità. Certo, il germe del punk più fetido tra un feedback e l’altro fa capolino, ma qui c’è solo male, non si conta one-two-three, si può solo vomitare cavi scoperti e attendere che le orecchie smettano di sanguinare.

Ghiaccio che si sposta mentre il vento fischia sulla terra estrema del Polo Nord. I Residents si muovono in un ambiente che è fatto e scolpito di soli rumori. Nulla è terreno qui e la musica in pratica non esiste. Quando compare è scomposta in particelle malate e stralunate. Fate affidamento agli stridii della natura più che a melodie fantasmatiche, fissatevi sulle voci effettate, ai versi alieni e ai mostri interiori ed esteriori. Se qualcuno ha cambiato le regole tra musica e “noise” di certo sono stati questi misteriosi individui. Here comes the bulbs.

Non c’è niente di meglio di un articolo la cui parola d’ordine è “noise” che contenga al suo interno un album che fin dal titolo consiglia di fuggirne. Spoiler: i Negativland vivono di rumore. Tutto quello che creano arriva da altrove, prendono sample, qualsiasi tipo di sample, e lo fanno suonare come meglio credono. Cut-up all’ennesima potenza. E mentre i ritagli vengono incollati gli strumenti più rumorosi salgono d’intensità, invitano gente tra la più folle sul mercato (Alexander Hacke, Jello Biafra, Residents, Mark Mothersbaugh, Fred Frith) e la invitano a fare a pezzi tutto. La cosa assurda è che tutto suona. Punto. Se ce l’avete in vinile meglio ancora, perché al macello si aggiungono i fruscii d’ordinanza a impreziosire il tutto.

Scegliere un disco solo dalla discografia di quel genio dell’apocalisse sonora che è K.K. Null non è stato semplice. Quando vidi dal vivo gli Zeni Geva a Torino assieme agli Infection Code rimasi stordito. Un muro di suono così totalizzante non mi era capitato così tante volte (beh, in quegli anni più o meno, ma ci torneremo). Eppure avevo già ascoltato tramite le mie fide cuffie “Total Castration” (e tutti gli altri loro album usciti fino a quel momento), un disco così lercio da non crederci, a partire dalla copertina. Il suono è, per l’appunto, castrante. Un livello di claustrofobia disastroso, ordito da Steve Albini (che si esibirà dal vivo con il trio unendo la sua chitarra marcia alle loro) e dal gruppo, volto ad opprimere chiunque vi si approcci, nella sua spirale costrittiva di violenza e sessualità depravata. Null e la sua voce stridente e cavernosa completano il quadro. Un quadro di Bosch, però su cui hanno cacato dei gorilla. Magnifico.

Visto che ho nominato Steve Albini e anche un certo tipo di depravazione…I Big Black sono stati tra i più marci di tutti a sguazzare nel rumore, piegandolo al proprio lascivo volere. Sul libretto i crediti recitano: (Steve uses and endorses heroin). Basta questo, prima ancora di testi e “musica” per capire che quello che il trio vuole più di tutto è dare fastidio a chiunque, far indignare chiunque, schifare chiunque. Ciononostante il loro sound è una scuola, rigorosamente in fiamme avvampate a suon di kerosene. Il titolo non lascia nulla all’immaginazione, così come l’hentai stampato su fronte e retro disco. Fa tutto male in “Songs About Fucking”, come la “cravatta colombiana” descritta nell’omonimo brano, le chitarre e il basso, la drum-machine, le grida roventi di Albini e i suoi testi infami oltre ogni limite. Roba che a farla uscire oggi…beh…non uscirebbe e basta. Per fortuna nel 1987 i censori stavano tutti dall’altra parte della barricata ed erano il loro bersaglio preferito.

Fino a questo momento è stato fatto suonare di tutto: tubi di cemento, di plastica, di metallo, seghe e motoseghe, lastre e molle d’acciaio, trapani e vari macchinari. Ma una lavatrice? Non una lavatrice a caso o un gruppo di lavatrici, altrettanto a caso, no, una Whirlpool Ultimate Care II, e da qui il nome del disco che solo a Drew Daniel e M.C. Schmidt poteva venire in mente di registrare. I Matmos sono sempre stati avanti a molti, tanti, troppi e decidendo di premere il tasto rec mentre la loro cazzo di lavatrice è all’opera nella loro cantina. Con alcuni amici poco in bolla, quindi della loro stessa pasta, si mettono ad attivarla, percuoterla, poi campionano il tutto e lo rimontano di modo che suoni. E funziona. Diavolo se funziona. D’altro canto gli elettrodomestici hanno cambiato il corso della storia casalinga (e non solo) dell’umanità. Perché non farne veri e propri strumenti?

Vi aspettavate che dopo la lavatrice dei Matmos partissi in quarta piazzando “Washing Machine” dei Sonic Youth? Fuochino, perché i Ciccone Youth in pratica sono i SY, ma nel loro tributo a Madonna Louise Ciccone. Che poi, tributo, ma sì, perché no? Di pezzi della Regina del Pop ce ne sono due, Into The Groove(y) e Burning Up, con un Mike Watt che cerca di tenere insieme i suoi pezzi, facendo a pezzi un altro pezzo, rendendolo ancor più bello, così funky e marcio, fastidioso e lercio. Nel resto di “The Whitey Album” serpeggia il disagio più assoluto, noise sibilanti, batterie sintetiche, spoken word quanto basta a star male. Mescolate, non tenete il tutto in frigo, anzi, mettetelo sull’asfalto di NYC in una torrida giornata d’agosto e poi trangugiate. Il pranzo è servito.

Se Michael Gira lo ha voluto tra i musicisti di un album dei suoi Swans un motivo ci sarà. Ben Frost non solo è in grado di dare forma al rumore, benché essa sia sempre priva di confini reali, ma anche sì di renderla musicale più di tanti altri suoi sodali/colleghi. Solo una mente che lavora per immagini (difatti ora più che mai il musicista australiano-islandese è impegnato nella composizione di colonne sonore per serie TV e videogame) può creare un album spaventoso come “Aurora”. I synth granulari si fondono a percussioni lontane, non solo nello spazio ma anche nel suo corrispettivo temporale, prontamente interrotte e infilzate da trapani noise dalla punta di diamante.

Il lercio per eccellenza Jon Spencer non poteva mancare e infatti non manca. I suoi Pussy Galore, in cui militano altri che di sozzura audio ne sanno, ossia Bob Bert, Julie Cafritz e Neil Hagerty, sono il fulgido esempio di come il garage non possa essere ingabbiato nelle istituzioni, men che meno in produzioni pulite. Dunque “Dial ‘M’ For Motherfucker” è un gran calcio nelle parti basse a partire dal titolo. Il contenuto è di quelli che trasudano sangue e merda. Sleazy come sleazy dovrebbe essere, fucilate stradaiole vere e proprie, roba da bassifondi, punk nell’animo, cattivi come la peste e soprattutto sboccati, con gli strumenti a far gracchiare le casse. Se ci fosse uno spartito sarebbe scritto con lo sputo catarroso di chi non ci tiene troppo alla salute.

Campioni del mondo di macello, i Boredoms hanno iniziato la carriera martoriando rock, punk, pop, quel che volete. Specchio degli Stati Uniti più fetidi, il Giappone si è distinto per il suo metodo noise tutto suo (creando addirittura un genere a sé), e tra i suoi cavalli di razza ci sono di certo Yamantaka Eye e Yoshimi P-We, che poi si sono stabiliti proprio in terra a stelle e strisce, importando la propria follia totale. “Soul Discharge” segue di un anno solo il debutto sulla lunga distanza “Osorezan No Stooges Kyo”, che già li aveva distinti per un certo grado di sporcizia. Con questo album il quartetto incendia ancor di più il proprio sound malefico. Sono delle schegge impazzite, i Boredoms, gridano senza ritegno e buttano per aria il tavolo della linearità bersagliandolo con getti di piscio rovente. Roba che non ha avuto eguali nemmeno tra i migliori connazionali del combo di Osaka.

Si contano sulle dita di una mano lavori di questa entità, un’entità oscura ed aliena, che vengono omaggiati di un album tributo. Di solito ad essere osannati sono dischi “antichi” e impolverati. Invece “[O T H E R]” di Lustmord ha lasciato un tale solco nella musica obliqua che un bel numero di folli ci si è messo d’impegno (e qui trovate la recensione del “tributo” in questione). Il corpus discografico di Brian Williams è di quelli sterminati, difficili da incasellare e pane per i denti di qualsiasi archivista del rumore, ma proprio con questo pezzo del puzzle il compositore gallese ha esplorato galassie lontane fondando una sua colonia nell’oscurità più profonda. La sua è “musica” assolutamente ostile, meditativa ma solo se a utilizzarla a tale scopo fossero monaci oscuri abitanti tra le ombre del Tartaro. Si avvale dei servigi chitarristici di Adam Jones, King Buzzo e Aaron Turner, giusto per rendere ancor più ostico il tutto. Magniloquenza dell’oltretomba.

C’è stato un periodo, in Italia, in cui il disagio aveva una forma, un odore, un sapore e necessitava di materializzarsi in tutta la sua imponenza. Tante erano le realtà che si misero di traverso agli altrettanto numerosi cicli di malessere sociale a cui siamo stati sottoposti: Anni di Piombo e Strategia della Tensione, Mani Pulite, Berlusconi. E questo elenco giusto per stare sulla “superficie”. Tra i progetti che incarnarono le pulsioni rumorose di quello che un tempo era l’underground (roba ormai per i libri di storia) alcuni spiccavano in tutto il fulgore del male. Tra questi c’erano Stefania Pedretti e Bruno Dorella, ovvero gli OvO. Difficile, per me, selezionare uno tra i tanti album mostruosamente potenti ed influenti scritti dal duo, ma “Cicatrici”, come nome vuole, ha lasciato un solco nel mio cuore, e non solo perché è l’album con cui li ho scoperti. Un disco che è universo atonale, una cripta oscura in bilico tra silenzi raggelanti ed esplosioni metalliche. La voce di Stefania arriva dal sottosuolo, dove risiedono i demoni, e spicca il volo in cieli di piombo. Fa male. Fa tutto male. È tutto bellissimo.

È il 1913 e Luigi Russolo decide di dare un taglio netto alle stantie composizioni classiche e alle loro melodie inquadrate in canoni sempre identici. Qui nasce l’Intonarumori, una scatola in cui viene stipata ogni sorta di ciarpame possibile e, a seconda del tipo di materiale e di oggetto contenutovi e tramite una leva, il musicista era in grado di creare da zero (e senza sapere del tutto cosa ne sarebbe uscito) nuovi suoni per la musica del futuro. È il 1997, mentre sta per uscire “Album Of The Year” dei suoi FNM, Mike Patton pubblica qualcosa di completamente diverso. “Pranzo Oltranzista”, ispirato tanto da Russolo quanto dal ricettario di Marinetti, dunque dal Futurismo tutto, è l’opera che sconvolgerà definitivamente il pubblico del cantante californiano. Sotto l’egida zorniana e con lo stesso Zorn tra le fila del combo messo assieme per l’occasione (che vede anche mr. Marc Ribot, l’uomo delle chitarre di Waits) dà alle stampe un lavoro debilitante, fatto in pratica di solo rumore, cibo divorato a favore di microfono, melodie che accompagnano il delirio e astrazione allo stato puro. Ben più estremo di “Disco Volante” (che già di per sé…), “Pranzo Oltranzista” è figlio del frastuono ed è il biglietto da visita per la musica del futuro. Quantomeno quella di Patton.

Cosa ci fa qui uno dei “rocker” più blasonati e classici di tipo tutti i tempi? Neil Young di certo non è stato solo influente, ma anche influenzato, ed è evidente non solo da Dylan et similia. Negli anni ’90 (appena iniziati) il noise rock ruggiva in tutto il suo furore e il canadese non era sordo a tutto il macello che usciva dagli amplificatori di questi giovani bastardi, al punto che durante il tour statunitense del ’91, tra una Cortez The Killer e una riproposizione di Blowin’ In The Wind il Nostro, assieme ai fidi Crazy Horse, decideva di far esplodere la testa della sua altrettanto fida audience a colpi di feedback marci e improvvisazioni sconnesse, che però avevano il potere di risultare fluide e imperiose al punto da convincerlo di cucirle assieme in un album, “Arc”, per l’appunto. Poco più di mezz’ora di macello infernale da leccarsi i baffi. Ovviamente c’è lo zampino di quel volpone di Thurston Moore. Ringrazio il signor Massimiliano Graziani per avermi fatto scoprire, anni fa, questa perla rumoroidale. Keep noisin’ in the free world.

Un salto oltre il grind. I Locust sono pura e semplice follia. Definirli soltanto veloci non rende l’idea, perché qui, nei 23 brani di “Plague Soundscapes”, si entra in un warp senza fine, un wormhole di suoni inferociti e lampi elettronici, il tutto ordito in combutta con Alex Newport, che di certe sonorità è maestro. Il senso del tempo è relativo, le grida no, quelle ti si piantano in faccia mandandola in mille pezzi. Le parole contano quanto la “musica”, perché l’odio per questo mondo così impostato e iniquo è marchio di fabbrica della locusta ed è impresso a fuoco nel metallo che si squaglia facendo partire il disco e le sue batterie diaboliche e labirintiche. Ci mancherai, Gabe. Non sai quanto cazzo ci mancherai.

L’avvento della nuova era di Internet si è portato dietro tanta di quell’immondizia…Eppure in mezzo a tanto pattume ci sono detriti che scintillano come oro, anche al buio. Come abbiano fatto i Death Grips a raggiungere la fama ottenuta (non stiamo comunque parlando di Joey Bada$$, eh) per me resterà sempre un mistero. Ma non me ne lamento, ogni tanto anche le figate si meritano un posto al sole. Il sole però da queste parti è freddo e fa rabbrividire. “The Power That B” è una Creatura di Frankenstein che dà allucinazioni e tremori. Il collage che Zach Hill e Andy Morin ordiscono per dare la possibilità a Stefan Burnett di sputare il suo acido venefico fuori dalla gola come uno Xenomorfo hip hop è noise colato. La follia è sentire la voce di Björk (accreditata come “materiale recuperato” e fatto suonare attraverso le V-drums del batterista degli Hella) in mezzo a tutto questo inferno totale.

In giro per l’articolo ho introdotto le indiscutibili Signore del Noise, Kim Gordon, Yoshimi P-We e Julie Cafritz ed è ora che i pezzi si riuniscano in un solo punto fino a formare le Free Kitten, combo completato da Mark Ibold dei Pavement e dedito alla disgregazione ultima del rock in una cumulo di poltiglia e sozzura d’antan. “Nice Ass” è un album che brucia come una cometa il cui passaggio è accompagnato da tre voci che di angelico non hanno proprio un cazzo di niente. Il movimento è di pura stortura e ubriachezza, più slabbrato che mai fatto di sporche estasi sessuali schiantate nero su bianco. Come sempre la dose di umorismo va a mischiarsi alla serietà, una ferocia riot grrrl irrefrenabile. Free Kitten è un progetto che non ha nulla da invidiare alle Bikini Kill, anzi, è forse anche più hardcore di quanto le altre non saranno mai (senza esagerare).

Prima del Teatro degli Orrori, prima dei passaggi radiofonici e tutto il resto, Pierpaolo Capovilla guidava una macchina lanciata a rotta di collo sulla dissestata strada del noise rock e quella macchina erano i One Dimensional Man. Il loro debutto omonimo trasuda distruzione, rabbia e delirio in parti uguali. Non c’è però equilibrio nella voce del Pierpa, che grida come un ossesso mentre demolisce le quattro corde del suo basso, sputa saliva e bile. L’album è oppressivo, sembra risucchiare tutta l’aria della stanza e non lascia riprendere forza finché non è terminato. Il riff portante di Sneak Away è un gioiello che ancora nessuno, a queste latitudini, è riuscito a superare.

Tanti discepoli, un solo Maestro: Glenn Branca. Ha mostrato al mondo, ai chitarristi di quel mondo mutante che dalla no-wave avrebbe portato al noise (rock) e oltre come far suonare al meglio uno strumento di cui sembrava si fosse scoperto ormai tutto. “Lesson No. 1” è nomen omen, è insegnamento puro, mostra ai giovani virgulti come creare un crescendo post-rock (Lesson No. 1 For Electric Guitar) e come poi far deragliare tutto combinando un disastro immane (Dissonance). Si porta dietro due allievi, Moore e Ranaldo, che porteranno (e ancora portano) alto il suo vessillo, pur irraggiungibile che sia.

Prendete l’idea (solo l’idea) di “punk”, velocità e anarchismo totale, rendetela ancor più incendiaria e anomala e otterrete “Queen Hygiene II” degli Arab Strap. Il debutto sulla lunga distanza del gruppo di Providence è a dir poco punitivo. Abuso di toni alti e dissonanze e ritmiche alienanti ci riportano sul campo da gioco del primo Arto Lindsay e dei suoi DNA. Se è vero che alla fine dei Novanta non c’era più così tanto da scoprire (e questo è ancora tutto da dimostrare) allora perché non fare a pezzi quanto già noto con 22 minuti scarsi di virulenta voglia di manicomio?

Sapevo che ad un certo punto avrei dovuto tirare in ballo il Re del Japanoise. Il problema sarebbe stato cosa scegliere dall’interminabile discografia di Masami Akita, meglio conosciuto come Merzbow. “Pulse Satan”? “Paradise Pachinko”? “1930”? Uno dei tanti album composti assieme ai Boris? Al che mi sono ricordato di un’altra eminenza rumorosa, colei/lui che ne gettò le basi per un uso moderno e (in)consapevole che collaborò con il mio giapponese preferito: Genesis P-Orridge. In “A Perfect Pain” (mai titolo fu più adatto) è l’amalgama perfetta di due creature dell’incubo, con il loro disagio sperimentale a fuoriuscire dalle casse. Minimalismo noise e voce diafana che balugina dalle tenebre in mezzo a trapani sintetici su tutta la lunghezza delle interminabili composizioni. Finito l’ascolto vorrete solo ed esclusivamente rimettere su “Spice World” e tenerlo nello stereo per una settimana intera.

Ricordate che parlavo di un determinato periodo in cui avrei visto la qualunque in termini di esplosione mentale? Ecco, sempre nel periodo in cui gli Zeni Geva e sempre a Torino fui infilzato dai Lightning Bolt. Zu di spalla e nemmeno un secondo dopo la fine del loro set sentiamo provenire dalle nostre spalle una cannella mefistofelica. Erano i due Brian, Chippendale e Gibson, che, mentre ce ne stavamo rapiti a sbavare dietro al trio romano, avevano montato i loro kit a due passi da noi. Fu un vero inferno. Andrebbe bene qualsiasi loro album, perché questi fanno un macello infernale e il rumore lo piegano a loro piacimento, lo ammazzano a calci e lo fanno risorgere più mortifero di prima. “Ride The Skies” è il loro secondo album, fortifica la sensazione di straniamento del self-titled e partono a cavallo del dolore. Non si sono ancora fermati. Non devono. C’è bisogno di loro.

Restiamo in casa LB ma facciamo un salto in avanti di dieci anni. Chippendale a questo punto è il signor Hundred Arms, sire del castello di Black Pus. Una ragione sociale irragionevolmente schifosa così come quel che produce. Quelle di “Primordial Pus” sono deiezioni anarcoidi e paranoiche che trasportano chi le ascolta in una realtà insensata. Surrealismo in non-musica, muzak per un ascensore che porta giù dritti nell’oltretomba più fetente possibile. Come si mixa un album come questo? Ci va la pala, il piccone, la merda. Anzi, il pus che vi colerà dalle orecchie se avrete l’ardire di ascoltarlo in cuffia. Fatelo. Ne vale la pena.

Non è facile far alzare la testa in segno di interesse a Steve Albini, ma gli Uzeda ci sono riusciti. Non è facile nemmeno approdare alla Touch And Go arrivando dal nostro Paese, ma gli Uzeda ci sono riusciti. Se già con “Waters” del 1993 erano riusciti a far loro il suono del noise rock più paludare, con “Different Section Wires” affermano il loro dominio sulla materia qui e altrove. La voce di Giovanna Cacciola si trascina ipnotica tra i labirinti e le architetture brutaliste tirate su da Agostino Tilotta e dalla sezione ritmica allucinante tenuta assieme da Davide Oliveri e Raffaele Gulisano. Un pezzo come Stomp non in tanti potrebbero scriverlo, anzi, nessuno. Solo loro. Sono tornati nel 2019 con un disco che non ha nulla da invidiare ai loro classici. Ne aspettiamo un altro. Qui lo dico, qui non lo nego.

Rieccoci a NYC, a Brooklyn per l’esattezza, ed ecco che il volume torna ad alzarsi oltre i livelli di guardia, anche per gli standard di quanto detto finora. L’estetica dei Black Dice è tipica di una certa “avanguardia indie” spinta fuori dagli Animal Collective (il leader Eric Copeland non a caso collabora con Avey Tare), tutta colori e collage, con un tocco di perversione, e infatti guardate qui sopra la copertina di “Broken Ear Record”. A differenza di tante altre realtà lo-fi/noise i BD dimostrano una certa maestria nel gestire e creare ritmo e a metterlo sotto i riflettori, facendo sì che i suoni “rotti” montino su una danza tutt’attorno alle percussioni digitali, creando un mondo che vive ai margini del funk psichedelico, come outsider à la “Mad Max” strafatti di ecstasy alle prese con un viaggio mistico senza fine.

Solo i Pan Sonic possono essere, a ragion data, visti come i reali successori dei Suicide, se non altro per l’approccio a determinate sonorità, perché quello alla vita è di appannaggio dei soli Rev e Vega. Proprio Alan sul terminare del secolo scorso ha deciso di unire le forze a Mika Vainio e Ilpo Väisänen per dare vita ad un vero e proprio mostro. “Endless” risente di tutte le schegge di rave culture ancora in vita negli anni in cui è stato concepito. Quando sentite qualche sprovveduto dire “la techno è solo rumore”, pensando di fare uno sgarro al genere in sé, non sa che in realtà è un complimento bello e buono. L’elettronica sgualcita e imbevuta di droghe allucinogene qui contenuta è permeata da glitch tanto graffianti da far grattare casse ed esplodere limiter. La voce è un fantasma nella macchina, infestante e spaventoso, come solo lui potrebbe essere.

Ho iniziato con i Jesus Lizard e mi sento in dovere di chiudere la partita con “Filth” degli Swans. Lassù, nell’Olimpo noise, risiede Michael Gira, la sua follia, le dipendenze, il malessere mai sopito e che battezza la nascita del suo progetto in una colata di acqua maledetta, in una chiesa diroccata fatta di vetro e cemento. Odio che trasuda dalle pareti, elettricità, urla belluine. Tutto il marcio dell’umanità sembra racchiuso in un solo album, che resta ad oggi uno dei più violenti mai concepiti. I denti in copertina sembrano volerci divorare, e lo fanno, pezzo per pezzo in una spirale di tortura senza fine.

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